
Quando ho iniziato a scrivere ‘Orlando e il mercato delle parole scontate“, nell’arco di un mese ho buttato giù circa 50 pagine. E per una come me, che ha il dono della sintesi, era davvero un bel traguardo. Pensavo di aver fatto tutto quello che era in mio potere ma quando l’ho fatto leggere a qualche amico, sono iniziate le critiche.
Il personaggio piaceva e proprio per questo il lettore era avido di dettagli sulla sua vita. C’erano capitoli in cui la descrizione dei fatti era stata così puntuale da portarlo ad identificarsi con ciò che stava accadendo. In altri invece era tutto ridotto all’osso e lasciava il lettore affamato.
Mi chiedevano spesso che colore avessero i suoi capelli, come fosse fisicamente. E tante altre minuzie che avevo tralasciato. E non perché non le sapessi ma, al contrario, ero talmente presa dal mio personaggio, da dimenticare di mostrarlo anche al lettore.
Allora ho ripreso la mia opera che per me era compiuta e ho iniziato a rivedere quelle parti in cui ero stata troppo sintetica. Non dovevo riassumere ma raccontare. E allora con uno sforzo sovrumano ho iniziato ad immaginare la scena. Dove si trova il mio protagonista? Cosa vede attorno a sé? Che relazione ha con quello che vede e quali emozioni gli trasmette? Sono stata a pensare pomeriggi interi, ad ipotizzare scenari plausibili per me e per il lettore. Fino a che non si è sbloccato qualcosa nella mia mente, attingendo alla realtà e alla fantasia e ho saputo dove avrei collocato il mio protagonista e cosa gli avrei fatto vedere, fare, toccare, percepire.