Come mai la sola immagine della marca ad un certo punto non è stata più autosufficiente a rappresentare l’identità di un’azienda è si è dovuto ricorrere alle storie?
La risposta a questa domanda la troviamo nella storia di un marchio famosissimo, la Nike, di cui la maggior parte di voi sarà sicuramente già a conoscenza.
Tuttavia vale la pena raccontarla in quanto è uno degli esempi più calzanti di quel momento di svolta in cui le aziende si sono rese conto che affidare la propria identità ad un semplice logo non era più sufficiente e bisognava ricorrere ad una vera e propria identità narrativa.
La storia della Nike
Tra la fine degli anni ’90 e gli inizi del 2000 la Nike viene scossa da due eventi:
- Numerose inchieste condotte in Asia, Africa e America latina portano all’attenzione dei paesi industrializzati le condizioni di lavoro di chi fabbrica i vestiti e le scarpe del famoso marchio. Si scoprono gli swaetshops, ovvero i laboratori del sudore. “Il movimento antiNike in cui si mostravano i buchi neri della globalizzazione: illuminavano i legami invisibili tra le marche e i loro subappaltatori, tra le agenzie di marketing e le fabbriche clandestine, tra i palloni da calcio ai piedi dei giocatori dei Mondiali del ’98 e le mani dei bambini che li fabbricavano. Sotto lo swoosh della Nike, i sweatshops” (Storytelling La fabbrica delle Storie)
- Nel 2003 un gruppo di artisti in aperta contestazione dell’occupazione dello spazio pubblico da parte del marchio Nike, installano un container in Karlsplatz con uno stand che si chiama (Nikeground. Rethinhking Space), informando i cittadini che la piazza era stata comprata dalla Nike e quindi era stata ribattezzata Nikeplatz e che presto sarebbe accaduto lo stesso in tutte le piazze principali d’Europa. “We set up a fake Nike advertisement campaign using a website and a huge hi-tech container we installed in a public square in Vienna. The news went out nationwide: “Karlsplatz, one of Vienna’s main squares, is soon to be renamed Nikeplatz, and a huge monument in the shape of Nike’s famous Swoosh logo will be built in Nikeplatz”. The campaign provoked the reactions of Vienna’s citizens, city officials and the Nike group, which started legal action. Against all odds we won against the giant.” http://0100101110101101.org/nike-ground/
Era chiaro che le ONG e le rappresentazioni artistiche avevano messo ko il marchio Nike.
Un’identità narrativa della Nike, non a favore del marchio, si era sviluppata al di fuori del marchio stesso, sfuggendo al suo stesso controllo.
La Nike aveva bisogno quindi di una sua identità narrativa, che il semplice logo non era più sufficiente a rappresentare.
Ecco perché si è passati dall’immagine di marca al racconto della marca.
La Nike diede quest’incarico a David Boje, esperto di organizational storytelling e grazie lui, essa ebbe una nuova identità narrativa che era fatta di un impegno forte a cambiare la propria politica del lavoro e per la protezione dell’ambiente.
Il potere della narrazione, come si evince da ciò che abbiamo poc’anzi raccontato, è molto forte, ed è capace di aumentare la percezione del valore dell’oggetto narrato o del suo disvalore.
Nel caso della Nike è chiaro che il racconto di una marca non è solo quello partorito dall’azienda stessa, ma è un universo complesso in cui si fondono narrazione e contro narrazione.
“Le imprese sono organizzazioni narrative, percorse da molteplici racconti, terreno di un dialogo costante tra narrazioni che si oppongono o si completano.” (David M. Boje)